A Venezia in concorso “Saint Omer” la madre medea di Alice Diop

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VENEZIA (ITALPRESS) – La storia di un processo e quella di una madre medea: “Saint Omer” giunge in Concorso a Venezia 79 e spiazza le carte di una competizione sinora davvero troppo settata su un livello classico, che trova qui uno dei suoi film in assoluto migliori. Si tratta del primo film di finzione di Alice Diop, che è una bravissima documentarista francese di origini senegalesi, già apprezzata e premiata in festival di categoria, portata a riflettere in forma precisa sugli schemi della vita sociale contemporanea. Qui si affida per la prima volta a una struttura narrativa, tenendo comunque i piedi ben saldi in una messa in scena asciutta, controllata nell’approccio alla realtà di cui racconta. Lo spunto viene da un fatto di cronaca accaduto sulle coste del nord della Francia: una giovane madre aveva abbandonato sulla spiaggia la figlioletta di pochi mesi, lasciando che l’alta marea la portasse via. Colpita da questa immagine di una donna che aveva voluto offrire la sua creatura al mare, “una madre ben piu` potente di quanto non potesse esserlo lei stessa”, come dice la regista, Alice Diop aveva seguito il processo nel tribunale di Saint Omer, sviluppando l’idea di questo film così preciso nella sua dolce durezza e così profondo nella sua algida compassione. Quello che colpisce infatti in “Saint Omer” è proprio lo schema narrativo che Alice Diop adotta: protagonista del film è Rama, una scrittrice francese di origini senegalesi che si reca a seguire il processo a Laurence Coly. Qui la classica forma narrativa del cinema nelle aule di tribunale, non si limita a schematizzare la ricostruzione testimoniale degli eventi, ma offre un approfondimento dei fatti sia in una prospettiva sociale che in una dimensione morale. Viene fuori dunque il confronto con la storia di una donna che cela dietro la propria indifferenza il dolore di una maternità vissuta come un’immersione straziante nella propria solitudine e, allo stesso tempo, una elaborazione del tema della maternità libera dai luoghi comuni familiari e più vicina alla complessità di una relazione profonda e complessa. Quello che per la scrittrice doveva essere un lavoro di documentazione diventa dunque un faccia a faccia con la propria dimensione di donna e di madre, offrendo un quadro limpido e doloroso che non lascia spazio per le mistificazioni morali o le fantasie sentimentali. Resta dunque un’opera dura e sensibile, che segna profondamente lo spettatore e lo libera sia dai preconcetti che dalle paure, costruita come un punto di passaggio tra la documentazione sociale e la risonanza dei miti, primo fra tutti ovviamente quello di Medea, visualizzato attraverso le immagini pasoliniane.
(ITALPRESS).

– credit photo agenziafotogramma.it –

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