All’Università dell’Arizona stanno usando la cacca per bloccare i focolai di coronavirus (e funziona)

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Cacca contro il coronavirus: l’Università dell’Arizona (Usa) ha identificato un potenziale focolaio di SARS-CoV-2 nello studentato Likins Hall dall’analisi delle acque reflue, nelle quali è emersa la presenza dell’RNA virale. Dai tamponi effettuati in seguito sugli studenti sono in effetti risultate due positività.

Che le acque reflue fossero un potenziale strumento per indagare la diffusione dell’epidemia di coronavirus era già noto, come anche la possibilità che l’RNA virale si annidi nelle feci delle persone anche prima che si manifestino segni clinici più o meno gravi.

In Arizona, le acque reflue di un dormitorio studentesco contenevano RNA virale pochi giorni dopo che gli studenti, tutti risultati negativi al test, si erano trasferiti nelle loro stanze questo mese. A quel punto però l’Ateneo ha riesaminato tutti i 311 residenti e lavoratori attivi presso i dormitori, trovando due studenti positivi al virus (asintomatici), attivando poi di conseguenza tutte le procedure di quarantena/isolamento.

“Se avessimo aspettato che diventassero sintomatici e fossero rimasti in quel dormitorio per giorni, settimane, o per l’intero periodo di incubazione, quante altre persone sarebbero state infettate?” si domandava nel corso di una conferenza stampa l’ex chirurgo Richard Carmona, ora membro di facoltà presso l’Ateneo.

Ottima notizia, non solo per il campus dell’Università dell’Arizona.

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“Ciò suggerisce che il controllo delle acque reflue è un ottimo sistema di allerta precoce” spiega infatti al Washington Post Kevin Thomas, direttore dell’University of Queensland’s Alliance for Environmental Health Sciences.

Questa tecnica, come spiega ancora lo scienziato, è stata utilizzata per anni per verificare la presenza di altri virus, per valutare il consumo di droghe illegali e per comprendere lo stato socioeconomico di una comunità in base al consumo di cibo. Ed è anche ottima in questo caso perché il SARS-CoV-2 permane nelle feci di soggetti anche nelle primissime fasi dell’infezione.

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Il processo utilizzato è lo stesso di quello condotto con i test mediante tampone nasale, che comporta la concentrazione dei frammenti di RNA nel campione per poi effettuare l’estrazione e l’identificazione del virus.

Dallo scorso 27 agosto il campus ha registrato 46 risultati positivi tra più di 10.000 test, ma gli studenti sono nel campus solo da una settimana. I nuovi casi in Arizona sono diminuiti del 25% la scorsa settimana, ma ora è probabile, e purtroppo inevitabile, che ci sia un aumento.

Ma forse in questo modo si potrà intervenire prima che i focolai diventino incendi.

Fonti di riferimento: Sciencemag / The University of Arizona/Youtube / Washington Post

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Da Greenme

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