Calapà racconta il suo “A un passo da Provenzano”: una storia nascosta (con un identikit del ’97)

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Un romanzo che racconta la storia di un ispettore della squadra mobile di Catania che fin dal 1997 è riuscito a tracciare un identikit di Bernardo Provenzano Share on facebook Share on twitter Share on whatsapp Share on email Share on print

BOLOGNA – “Una storia nascosta”. Non c’è definizione migliore di quella del sottotitolo per la vicenda raccontata in “A un passo da Provenzano” (Utet), terzo libro di Giampiero Calapà, giornalista del “Fatto Quotidiano” ed esperto di mafia e criminalità.

giampiero calapà

Giampiero Calapà

In “A un passo da Provenzano”, Calapà ripercorre la carriera di Alessandro Scuderi, ispettore della squadra mobile di Catania, che fin dal 1997 è riuscito a tracciare un identikit di Bernardo Provenzano di cui pochi conoscevano la faccia, almeno fino al suo arresto avvenuto nel 2006. Eppure Scuderi, invece di essere appoggiato nelle sue indagini, viene ostacolato nel corso degli anni ripercorsi da Calapà in uno stile avvincente che per certi versi ricorda quello inconfondibile di Sergio Zavoli in “La notte della Repubblica”.

Come mai hai deciso di raccontare la storia di Alessandro Scuderi? Una sorta di riscatto per un uomo che credi non abbia avuto il giusto riconoscimento dalle istituzioni di cui lui stesso faceva parte?

Per una sorta di riscatto non solo dell’ispettore superiore Alessandro Scuderi ma di tutte quelle donne e quegli uomini che hanno speso e spendono la vita nella vera lotta alla mafia senza venire celebrati tra onori e… onorevoli. L’ispettore Scuderi è per me il simbolo di un’antimafia che non si autodefinisce tale per partecipare ai pranzi di gala. E’ un poliziotto che ha speso la sua vita per lo Stato ma a cui lo Stato non ha reso quanto meritava. Raccontare la storia dell’ispettore Scuderi per me ha il significato di onorare i caduti nella guerra contro Cosa nostra senza partecipare alle solite e ormai stomachevoli passerelle e urlare in faccia a chi non lo vuole sentire che non devi essere per forza morto ammazzato per avere un riconoscimento, per essere definito “eroe”. Raccontare la storia dell’ispettore Scuderi significa per me liberarsi da quell’antimafia che si autocelebra cantando le messe e onorando i santi, scomunicando chi non vuole partecipare al rito, per usare i concetti di un grande giornalista siciliano prestato alle istituzioni come Claudio Fava.

Quando hai conosciuto Scuderi? E cosa ti ha colpito di lui e della sua storia?

a-un-passo-da-provenzanoQualche anno fa, mentre lavoravo a inchieste in Sicilia che mi hanno fatto “inciampare” su questo ispettore di polizia… poi col tempo siamo diventati amici e, tra un racconto e l’altro, ho capito che la storia di Scuderi era un pezzo di storia d’Italia… una storia che passa dall’arresto di “Prima Luce” Totuccio Contorno, il primo pentito di Cosa nostra che “canta” e che lo fa contro i feroci Corleonesi, al fallito attentato dell’Addaura al giudice Giovanni Falcone. “A un passo da Provenzano” inquadra questi due episodi da un’angolatura inedita, raccontando particolari mai sentiti prima: Scuderi c’era. E poi l’indagine sulla morte di Gino Ilardo, il quasi pentito che non riuscì a formalizzare la sua collaborazione, dopo averla annunciata ai massimi livelli investigativi anti-mafia dell’epoca, perché fu ucciso da Cosa nostra. Un’indagine che ha segnato il percorso umano e professionale dell’ispettore Scuderi, portandolo a un passo da Provenzano.

Il tuo libro ha anche un identikit inedito di Bernardo Provenzano. Un identikit, va detto, molto più somigliante alle foto segnaletiche fatte dopo il suo arresto rispetto agli identikit ‘ufficiali’ che giravano in quel periodo. Ci racconti come è nato?

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L’identikit di Provenzano

E’ nato proprio dall’indagine sull’omicidio Ilardo e dai risvolti della stessa. Immaginatevi la scena come se fosse un film, l’ispettore con una sua “fonte”, cioè un altro mafioso che i boss definirebbero “infame”, che gli racconta per filo e per segno come è fatto Bernardo Provenzano, quando del capo di Cosa nostra non c’era una fotografia reale dagli anni Sessanta. E mentre sui nostri giornali venivano pubblicati identikit molto lontani dal reale volto di Provenzano c’era un poliziotto che quel volto lo aveva “visto” nel 1997, nove anni prima della cattura. Ma è rimasto nel suo cassetto. Nel libro scopriamo perché e gli interrogativi che si aprano fanno riflettere anche su quanto accade oggi, o non accade, con Matteo Messina Denaro.

Colpisce il ricordo che Scuderi ha del boss Gino Ilardo. Forse un po’ troppo indulgente?

Non è troppo indulgente, considerate che di persona l’ispettore Scuderi non ha conosciuto Gino Ilardo. Lo ha conosciuto intercettandolo per un’altra indagine rispetto alla quale capì subito che Ilardo nulla c’entrava. Ma l’ispettore attraverso quelle telefonate e dopo la morte dello stesso Ilardo per mano di Cosa nostra ha conosciuto un uomo, un padre, che aveva fatto un percorso di vita estremamente complicato tanto da portarlo a un passo dall’addio alla mafia, ma senza averne avuto il tempo. Ilardo non è un eroe, ma avrebbe potuto essere, per lo Stato, un importantissimo alleato nella lotta a Cosa nostra e nella ricerca della verità di tante pagine oscure di questo Paese. Eppure, probabilmente, qualcuno nello Stato anche in questa occasione ha remato a favore della mafia, mentre altri, come l’ispettore Scuderi, e il pm Pasquale Pacifico che raccoglierà nella sua indagine gran parte del lavoro del poliziotto, procedevano in direzione ostinata e contraria, con qualche risultato tangibile, ma senza, appunto, onori e gloria.

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