Catastrofi «inevitabili» e catastrofi reali: i vulcani dei Caraibi

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Tempo di Lettura: 10 minuti

di Gianfilippo De Astis

Antille, isole circondate da mari sul cui fondo leggendarie scorrerie di pirati hanno fatto sprofondare tesori stivati in vecchi galeoni spagnoli… Storie di secoli orsono, lette sui romanzi di Salgari e Defoe o seguite con trepidazione sullo schermo nelle numerose versioni cinematografiche dell’Isola del Tesoro.

Scomparsi corsari e ciurme arrembanti, il grande arcipelago caraibico fa ancora parlare di sé non solo per gli ottimi rum ma soprattutto per eventi non meno ricchi di pathos e colpi di scena di quelli pirateschi: le eruzioni vulcaniche. In realtà, solo una parte dello sterminato insieme di isole caraibiche è di origine vulcanica ed è quella delle Piccole Antille, orientata in direzione N-S, che si estende da Sombrero fino a Grenada (Figura 1) e rappresenta un classico arco vulcanico di subduzione, associato allo “scivolamento” della litosfera atlantica sotto la placca caraibica.

A partire dall’inizio del ’900, alcuni dei vulcani che costituiscono queste isole non hanno certo lesinato notizie, vicende appassionate, sofferenze e tragedie. E qualche eruzione o storia, lungo l’arco, merita senz’altro di essere ricordata.

Figura 1 – Antica mappa nautica (XVI sec.) dell’arcipelago delle Antille e del Mar dei Caraibi: a destra Le Piccole Antille, distribuite ad arco, con andamento N-S circa. Cerchio verde: Montserrat; cerchio giallo: Guadeloupe; cerchio blu: Martinique; cerchio rosso: St.Vincent.
Figura 1 – Antica mappa nautica (XVI sec.) dell’arcipelago delle Antille e del Mar dei Caraibi: a destra Le Piccole Antille, distribuite ad arco, con andamento N-S circa. Cerchio verde: Montserrat; cerchio giallo: Guadeloupe; cerchio blu: Martinique; cerchio rosso: St. Vincent.

Storie di vulcani esplosivi

Molti studiosi e appassionati di vulcanologia ricordano l’eruzione del vulcano Pelée (1902), se non altro per l’altissimo numero di morti (circa 29000!) che generò sull’isola di Martinica, nel settore centrale dell’arcipelago antillano (Figura 1). Nel maggio di quell’anno, nonostante un incremento dell’attività fumarolica e una serie di esplosioni avvenute ad aprile, quasi tutti gli abitanti della città di Saint-Pierre furono persuasi a non lasciare l’isola a causa delle elezioni politiche previste in quel periodo, ma invece di andare a votare perirono, investiti dai flussi piroclastici che il vulcano riversò sull’intero abitato…

Altri, forse meno, avranno in mente la lunga e mai sopita eruzione del vulcano Soufrière Hills (1995-2010, 2012, e oltre…) sull’isola di Montserrat, nella parte settentrionale dell’arco vulcanico (Figura 1). A differenza del Monte Pelée, quella sequenza di eventi causò negli anni “solo” poche decine vittime (Giugno 1997) ma modificò in maniera permanente la vita e la geografia dell’isola. Infatti, l’ex capitale, Plymouth, così come un ampio settore della parte meridionale dell’isola, compreso l’aeroporto, furono devastati dai flussi piroclastici e gran parte di quell’area è ancora oggi una “exclusion zone”, sepolta sotto uno spesso strato di ceneri e fango (Figura 2). Due terzi della variopinta popolazione di Montserrat – che le ondate migratorie avevano reso un magnifico mix di storia, cultura, cucina e narrativa afro-irlandese-britannica – fu costretta ad abbandonare l’isola, incapace di sostenere le turbolenze economiche causate da questi fenomeni su agricoltura e turismo e schiacciata dalla precarietà e dall’incertezza di nuove esplosioni. Così, nulla fu come prima.

Figura 2 - Impatto dei prodotti piroclastici sulla città di Plymouth, vent’anni dopo l’eruzione che la seppellì (Andrew Shiva/Wikipedia)
Figura 2 – Impatto dei prodotti piroclastici sulla città di Plymouth, capitale di Montserrat, vent’anni dopo l’eruzione che la seppellì (Andrew Shiva/Wikipedia)

Ma non era ancora l’epoca d’oro di Twitter e Facebook e le notizie correvano meno veloci, solo raramente accompagnate in tempo reale da filmati eclatanti (come questo, Montserrat 1995), per cui l’esplosione di un vulcano era dai più percepita come un terrificante e distante spettacolo della Natura.

Da qualche settimana, alla ribalta su una infinità di media, c’è il vulcano de La Soufriere, ubicato questo sull’isola di St. Vincent, nella parte meridionale delle Piccole Antille (Figura 1). Tra il 9 e il 10 Aprile, con una sequenza di almeno cinque potenti e violente esplosioni, più altre minori, ha mostrato a tutto il mondo come un vulcano possa oscurare il sole, trasformando il giorno in notte. Per una descrizione precisa di come si siano evoluti i fenomeni vulcanici, a partire da fine dicembre scorso fino ad oggi, con violenti esplosioni che ancora si susseguono, vi consiglio di leggere l’articolo del nostro Boris Behncke.

Qui però ci preme puntare lo sguardo sui (potenziali) pericoli di una eruzione come questa: caduta di ceneri e bombe in un raggio ampio, scorrimento e deposizione di calde e micidiali correnti piroclastiche (fino a 5-6 km di distanza e più dal cratere), formazione di lahars. Come in tutte le eruzioni fin qui rievocate (e per tutti i vulcani esplosivi del mondo), una delle questioni più delicate e complesse, è quella di decidere se evacuare o meno la popolazione. E nel caso, fin dove e fino a quando?

A La Soufriere, già la mattina del 9 aprile erano state evacuate 15-20000 persone, residenti nelle zone rosse e arancio della Mappa di Pericolosità (vulcanica) dell’isola, quelle a massimo rischio, con una sola buona arteria di trasporto disponibile da sud a nord. Su questo fronte le cronache ci dicono che la tempistica (imposta dalla escalation dei fenomeni vulcanici) è tutta condensata in un giorno (l’8 aprile 2021), allorquando il primo ministro dell’Isola e il responsabile dell’organizzazione che si occupa delle emergenze (la National Emergency Management Organization – NEMO) dichiarano l’Allerta Rossa (Figura 3) e diramano un ordine di evacuazione della popolazione via TV, radio e social-media.

Figura 3a-3b: Infografiche di allerta sull’isola di St. Vincent, accompagnate da questo messaggio: The volcanic alert level in St. Vincent is now at RED. Continue to follow UWI Seismic Research Centre and NEMO St. Vincent and the Grenadines for official updates. (tradotto: Il livello di allerta a St. Vincent e ora ROSSO. Continuate a seguire gli aggiornamenti ufficiali forniti dall’UWI Seismic Research Centre e da NEMO per St. Vincent e le Grenadines).
Figura 3 – Infografiche di allerta sull’isola di St. Vincent, accompagnate da questo messaggio: The volcanic alert level in St. Vincent is now at RED. Continue to follow UWI Seismic Research Centre and NEMO St. Vincent and the Grenadines for official updates. (traduzione: Il livello di allerta a St. Vincent e ora ROSSO. Continuate a seguire gli aggiornamenti ufficiali forniti dall’UWI Seismic Research Centre e da NEMO per St. Vincent e le Grenadines).

L’annuncio via Tweet di questa “concreta possibilità di disastro” avviene a seguito di una comunicazione tra le Autorità competenti ed il Prof. Richard Robertson dell’Università delle West Indies (UWI). In una conferenza stampa di alcune ore prima Robertson aveva illustrato che dalle 3 fino alle 10 del mattino di giovedì 8, le stazioni di monitoraggio avevano registrato attività sismica in prossimità  della superficie associata a segnali correlabili con terremoti di lungo periodo. Tutto ciò, dice Robertson nella conferenza, significa che magma fresco sta cercando di raggiungere la superficie e il vulcano evolve verso «una fase esplosiva». A ridosso dei fatti appena descritti, David Pyle – vulcanologo dell’Università di Oxford – ha commentato che: «… niente batte l’esperienza sul campo, nel senso di avere scienziati che hanno un’idea di ciò che i segnali ti stanno dicendo sulla base di conoscenze esperienziali».

Appaiono quindi determinanti tanto il ruolo delle istituzioni scientifiche quanto il circolo delle comunicazioni che coinvolgono l’apparato civile-amministrativo, che deve prendere le decisioni finali, e le comunità di residenti. Se infine si tiene presente che gli scienziati della locale università hanno prodotto nel 2021 vari aggiornamenti riguardanti la crisi vulcanica, fra cui spicca quello in cui Robertson afferma, con linguaggio ben poco scientifico ma eloquente, che La Soufriere mostrava segni di “unhappiness” (scontentezza) e che il sistema di monitoraggio indicava l’approssimarsi di una possibile eruzione (per approfondimenti guardare i numerosi video su YouTube e Facebook), è evidente come i ricercatori abbiano costantemente giocato un ruolo di primo piano, anche in termini di comunicazione.

La Grande Soufriere: realtà, percezione, finzione

Ma Le Soufrières (come gli esami, è il caso di dire) non finiscono mai, e l’evento “eruttivo” che ci fa ancor più meditare è quello di un altro stratovulcano caraibico: La Grand Soufriere dell’isola Guadalupe, nel settore settentrionale dell’arcipelago (Figura 1), territorio francese d’oltremare (e sarà per questo che non è una Soufriere normale ma è Grand…).

Nell’estate del 1976, dopo circa 8-9 mesi di sismicità anomala, il vulcano diventa teatro di una crisi per una sua possibile riattivazione, divenuta celebre per due ragioni: i) l’acceso dibattito scientifico (i.e. feroci polemiche) cui diedero vita alcuni famosi vulcanologi francesi (Haroun Tazieff vs. Claude Allègre e Michel Feuillard) e che portò all’evacuazione per diversi mesi di circa 75.000 persone; ii) il film-documentario La Soufrière – Warten auf eine unausweichliche Katastrophe (letteralmente: In attesa di una catastrofe inevitabile) che vi costruì sopra il regista tedesco Werner Herzog (Figura 4), fornendo una testimonianza che a distanza di decenni si rivelerà unica.

Figura 4 - ll regista tedesco W.Herzog a La Guadaloupe mentre sale verso la sommità del vulcano con la sua attrezzatura cinematografica (Foto: Werner Herzog Film, Behind the Scenes e [2]).
Figura 4 – ll regista tedesco Werner Herzog a La Guadaloupe mentre sale verso la sommità del vulcano con la sua attrezzatura cinematografica (Foto: Werner Herzog Film, Behind the Scenes e [2]).

Nell’agosto di quell’anno, Herzog – sin dagli esordi (e tuttora) considerato artista estremo e narratore di storie e ambienti impossibili – stava lavorando in Germania al montaggio di un altro suo film (Cuore di vetro, ndr) ma gli giunge notizia della situazione sull’isola caraibica. In particolare, viene a sapere del rifiuto di un contadino (molto povero) di lasciare la propria casa alle pendici del vulcano, ed allora si precipita sull’isola e gira un documentario che al montaggio avrà una durata di circa 40 minuti [1]. Con lui, nell’impresa in terra francese d’oltremare, altri due cine-operatori: Jörg Schmidt-Reitwein e l’americano Ed Lachman.

All’arrivo a Basse-Terre, capoluogo dell’isola di Guadalupe, i cui abitanti ancora oggi vivono come un trauma l’esperienza di quella evacuazione, i tre uomini trovano una città abitata solo da «coppie di asini, famigliole di maiali, polli e soprattutto cani», come si ascolta dallo stesso Herzog che è la voce narrante del documentario. L’aspettativa, sempre nelle parole di Herzog, è quella di una esplosione dell’intero monte con una «forza di cinque o sei bombe atomiche». L’atmosfera che si capta dalle riprese è altamente surreale e, nella consapevolezza dei tre viaggiatori che «il vulcano poteva esplodere da un istante all’altro» [2], lo spettatore ondeggia tra fascino (e qui Rachmaninov, Brahms e Wagner aiutano [3]), paura e ironia.

Il documentario mostra Herzog e i suoi compagni che si avventurano verso il cratere, mentre raccontano di aver piazzato anche una telecamera a 25 km di distanza, pensando quindi di poter probabilmente morire ma di lasciare comunque una documentazione dell’evento a chi avesse avuto la fortuna di ritrovare quella telecamera lontana… Ma la catastrofe non ha luogo. Ecco allora che il film si concentra sulla ricerca e l’incontro con il “povero contadino” (Figura 5) per cui Herzog era partito ed a quel punto Herzog ne trova addirittura tre. Tre anime erranti, alle soglie di un’apocalisse annunciata, che sembrano comunque serene e mostrano un fatalismo fondato su una incrollabile saggezza. La passione di Herzog per i personaggi anomali e “folli” prende così il sopravvento (come spesso accade nei suoi film) ed i frammenti di conversazione che si ascoltano diventano memorabili…

Figura 5 – Uno dei contadini trovati ed intervistati da Herzog sull’isola de La Guadaloupe, in attesa dell’eruzione che non ci fu (Foto: Werner Herzog Film, Behind the Scenes).
Figura 5 – Uno dei contadini trovati ed intervistati da Herzog sull’isola de La Guadaloupe, in attesa dell’eruzione che non ci fu (Foto: Werner Herzog Film, Behind the Scenes).

La Natura tra osservazione, interpretazione e illuminazione di fenomeni

Misurandosi con il vulcano e coi tre “superstiti”, in una condizione ambientale così estrema, il film di Werner Herzog fa emergere temi che sono presenti tanto dentro il miglior tipo di cinema documentaristico quanto nelle scienze naturali e in definitiva sono parte dell’esperienza umana che si muove tra realtà, percezione della realtà e rappresentazione della stessa (finzione nel caso del cinema o simulazione nel caso dei modelli scientifici). Quel cui sto pensando riguarda questi punti (e senz’altro altri ancora, che potrà estrapolare chi si metta a guardare La Soufriere):

– l’origine e la fine. Ogni singola immagine su pellicola potrebbe essere l’ultima e il regista si fa almeno una domanda simile a quella di un vulcanologo che vada a campionare sul bordo di un vulcano attivo: «Ha senso andare in un posto così e filmare con un pericolo tanto imminente o avremmo invece fatto meglio a tenerci alla larga, senza fare il film?»[2].

– I limiti dello sguardo, dell’osservazione di un sistema e della sua rappresentazione: si può mostrare qualcosa di invisibile? La telecamera inquadra la montagna, la giungla e i gas che fuoriescono da grandi fratture beanti, ma fino a quando l’evento non accade, il pericolo non è una cosa che si può facilmente riprodurre sullo schermo, anche se gli spettatori percepiscono che un pericolo c’è. Lo stesso si può dire dell’attesa: intangibile, non misurabile ma angosciante e percepibile come lo è il pericolo. Filmare/raccontare/sostenere l’attesa è per chiunque – artista, contadino, abitante esposto ad una potenziale catastrofe – una fonte di tensione che ha necessità di essere sciolta e indirizzata.

– Il rapporto Uomo/Pericoli Naturali: come governare la commistione tra realtà, realtà presunta e contraffazione (uno degli intrecci ricorrenti della poetica e della filmografia Herzoghiana) che ormai caratterizzano molti dei processi umani di fronte ad eventi catastrofici o semplicemente ignoti?

Quando girò La Soufriere, Herzog aveva 34 anni ed una lunga collana di film ancora da girare ma nelle sue dichiarazioni e nei suoi documentari (oltre 20, a tutt’oggi) è ben evidente come rifiuti di considerarsi un divulgatore e avversi esplicitamente qualsiasi lettura didattica dei suoi lavori. Uno dei suoi documentari più recenti, Into the Inferno (2016 – [4]) girato in collaborazione con il vulcanologo inglese C. Oppenheimer, segna il ritorno di Herzog al “vulcanismo attivo” (accarezzato anche con Encounters at the End of the World, 2009). Attraverso l’Indonesia, l’Islanda, l’Etiopia e la Corea del Nord, l’obiettivo dell’ormai settantaquattrenne regista tedesco non è puntato solo sui vulcani, ma nuovamente e forse soprattutto sulle persone che vivono con loro e devono coesistere con questa terrificante spada di Damocle sopra la testa.

Nella chiara convinzione che la natura – spesso ostile, violenta, primitiva – sia sede di un eterno conflitto tra orrore e magnificenza, Herzog è uno dei pochi filmmakers che nelle sue opere mostra gli scienziati come personalità complesse spinte da idee e visioni fortemente personali, quasi ossessive. Forse questo non è vero o forse sì, lo è. Quel che ci appare ben più convincente, è invece l’idea che lo studio dei vulcani (o almeno la loro rappresentazione) non possa essere scisso dalla questione antropologica e dunque sia necessario (accanto alle evidenze scientifiche) raccontare e capire anche gli abitanti di queste terre in continua trasformazione.

Alla luce di queste storie, e in questi tempi di comunicazione confusa e distorta, l’orizzonte che si dischiude per vulcanologi, scienziati tout-court e cittadini è quello di una comunicazione nuova e più profonda fatta sul terreno di un linguaggio comune da costruire mattone su mattone. Potrebbe quindi trattarsi di abbracciare qualcosa di più vicino allo spirito del regista tedesco. Ovvero essere… narratori empatici, studiosi vicini all’essere umano, illustratori di dati reali anche attraverso l’uso della finzione, consapevoli che su una terra che non smette mai di “muoversi”, le esistenze di tutti noi sono instabili e solo una conoscenza diffusa e accessibile a tutti può garantire l’equilibrio necessario a navigare quest’esistenza turbolenta

Come andò a finire in Guadaloupe…

I fatti de La Grande Soufriere, successivamente ed infine, diedero sostanzialmente ragione a Tazieff e smentirono le previsioni di Allègre e Feuillard (direttore dell’Osservatorio vulcanologico sull’isola) perché a La Guadaloupe non ci fu una vera e propria eruzione ma una modesta eruzione freatica, con effetti limitati alla sommità del vulcano. Chi fosse interessato, può leggere qui una ricostruzione (in francese) della querelle del 1976, con l’avvertenza che spesso durante una crisi vulcanica le decisioni vanno prese in tempi brevi e con informazioni incomplete, ad alta incertezza. Oltretutto, studi successivi sui parametri fisico-chimici registrati in quel sistema [1975-1977 – 5] hanno assegnato allo scenario “no-eruzione” una probabilità media 0.5 e a quello di “esplosione violenta” una probabilità di 0.4. In altri termini, non vi era alcuna evidenza che facesse pendere la bilancia decisamente verso uno o l’altro scenario.

La riflessione finale di W. Herzog sulla sua esperienza fu invece questa: «Per noi, le riprese per questo film hanno assunto un aspetto patetico, e così tutto è finito con un nulla di fatto e nel ridicolo più completo. Ora diventerà il documentario di una catastrofe inevitabile che non si verificò».


Note

[1] La Soufrière – Warten auf eine unausweichliche Katastrophe (1977). Regia di W. Herzog; Soggetto e Sceneggiatura: W.Herzog, J. Schmidt-Reitwein, E. Lachman. Produzione: Werner Herzog Filmproduktion, Monaco. In una versione di 30 minuti circa, disponibile gratuitamente online.

[2] G.Paganelli (2008). Segni di vita. Werner Herzog e il cinema. Ed. il Castoro. pp. 312

[3] S.V. Rachmaninov: 2. Konzert für Klavier und Orchester e-moll Op.18, II movimento (adagio sostenuto) https://www.youtube.com/watch?v=rEGOihjqO9w; J.Brahms: Wiegenlied meiner Schmerzen, Intermezzo op. 117 Nr. 1: https://www.youtube.com/watch?v=DjZy4bymvvk; R.Wagner: Götterdämmerung, Trauermarschhttps: https://www.youtube.com/watch?v=wXh5JprKqiU

[4] Into the Inferno (2016). Regia, soggetto e sceneggiatura: W. Herzog. Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=YoSmPkWmG4k

[5] Hincks, et Al. (2014). Retrospective analysis of uncertain eruption precursors at La Soufrière volcano, Guadeloupe, 1975–77: volcanic hazard assessment using a Bayesian Belief Network approach. J Appl. Volcanol.

 

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