Confermato il ruolo della vitamina D nel ridurre il rischio e la letalità del coronavirus. Lo studio

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Tra alti livelli di vitamina D e un ridotto tasso di letalità da Covid-19 c’è un legame. Una notizia che inizialmente era stata etichettata come fake e lo stesso nostro ministero della Salute ha sempre sostenuto l’assenza di prove in merito. Tuttavia ora uno studio conferma l’ipotesi del ruolo della vitamina D nel ridurre la gravità dei sintomi da coronavirus.

Una ricerca pubblicata sulla rivista Aging Clinical and Experimental Research mostra infatti una potenziale associazione tra livelli più alti di vitamina D – o meglio “assenza di una carenza di vitamina D” – e un ridotto tasso di letalità di Covid-19. Ciò non vuol dire, quindi, che siano raccomandati degli integratori.

Lo studio – di cui gli autori avevano mostrato già i risultati in pre-pubblicazione alla fine di aprile – ha trovato associazioni tra bassi livelli medi di vitamina D, un alto numero di casi Covid-19 e tassi di mortalità in 20 Paesi europei.

Nuova ricerca collega la carenza di vitamina D a tassi di mortalità Covid-19 più elevati

Lee Smith della Anglia Ruskin University (ARU) e Petre Cristian Ilie, capo urologo del Lynn NHS Foundation Trust della Queen Elizabeth Hospital, e il loro team sono partiti da un presupposto: precedenti studi osservazionali avevano riportato un’associazione tra bassi livelli di vitamina D e suscettibilità alle infezioni acute del tratto respiratorio. La vitamina D ha la capacità di modulare la risposta dei globuli bianchi, impedendo loro di rilasciare troppe citochine infiammatorie e il coronavirus è noto proprio perché capace di causare un eccesso di citochine pro-infiammatorie.

Gli studiosi hanno in particolare analizzato la situazione di Italia e Spagna, dove hanno registrato alti tassi di mortalità da Covid-19, e hanno mostrato come entrambi i Paesi abbiano livelli medi di vitamina D più bassi rispetto alla maggior parte dei paesi dell’Europa settentrionale. Questo in parte perché le persone nell’Europa meridionale, in particolare gli anziani, evitano il sole forte, mentre la pigmentazione della pelle riduce anche la sintesi naturale di vitamina D.

I livelli medi più alti di vitamina D si trovano nel nord Europa, grazie al consumo di olio di fegato di merluzzo e di supplementi di vitamina D, e probabilmente di una riduzione del sole. Le nazioni scandinave sono tra i Paesi con il numero più basso di casi Covid-19 e tassi di mortalità pro capite in Europa.

Uno studio precedente ha scoperto che il 75% delle persone in posti come ospedali e case di cura, era gravemente carente di vitamina D. Suggeriamo che sarebbe consigliabile eseguire studi dedicati esaminando i livelli di vitamina D in pazienti COVID-19 con gradi diversi di gravità della malattia – dice Ilie. Il nostro studio presenta tuttavia delle limitazioni, anche perché il numero di casi in ciascun Paese è influenzato dal numero di test eseguiti, nonché dalle diverse misure adottate per prevenire la diffusione dell’infezione. Infine, e soprattutto, bisogna ricordare che la correlazione non significa necessariamente causalità”.

Oltre a diminuire il numero di decessi, la vitamina D potrebbe anche diminuire il numero dei casi. Secondo gli studiosi avrebbe infatti un ruolo legato all’Ace2, l’enzima di conversione dell’agiotensina2, quella sorta di accesso che il virus usa per entrare nelle cellule. In realtà Ace2 è presente anche nel sangue, dove invece agisce come anticorpo neutralizzante, in questo caso favorito dalla vitamina D. Gli autori dello studio hanno dimostrato che nei giovani colpiti la sua diminuzione è inferiore a quella degli adulti, e nelle donne è meno che negli uomini.

Questi dati vanno a confermare quelli già emersi nello studio tutto italiano dell’Università di Torino condotto a marzo:

Coronavirus: la vitamina D potrebbe avere un ruolo di prevenzione e terapeutico. Lo studio italiano

In conclusione, gli autori precisano che non si tratta di assumere la vitamina D come fosse una panacea, anche e soprattutto alla luce del fatto che altri fattori determinano la gravità della malattia. Sono questi solo i risultati di uno studio su un campione di popolazione e non si sostituiscono ai pareri della classe medica.

Fonte: Aging Clinical and Experimental Research

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