Coronavirus, creato un respiratore polmonare per paesi in via di sviluppo

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In arrivo un respiratore che potrà essere fabbricato da chiunque abbia un trapano e una piccola officina Share on facebook Share on twitter Share on whatsapp Share on email Share on print

BOLOGNA – Si chiama Diego ed e’ il primo respiratore polmonare che, durante la pandemia da Covid-19, e’ stato ideato per essere esportato nei paesi in via di sviluppo. Il progetto, portato avanti dall’Istituto italiano di tecnologia (Iit) in collaborazione con l’Universita’ di Ferrara, nasce proprio per aiutare le persone che non hanno accesso a macchinari sanitari adeguati nei contesti dove le cure non vengono garantite a tutti.

“Il respiratore Diego e’ stato progettato con l’idea di farlo costare il meno possibile e di renderlo replicabile ovunque nel mondo– spiega Luciano Fadiga, professore dell’Universita’ di Ferrara e direttore del Centro di neurofisiologia traslazionale dell’Iit- Chiunque abbia un trapano e una piccola officina e’ in grado di fabbricarlo: ha un motore automotive, come quelli da tergicristallo, reperibile ovunque. E i disegni progettuali sono stati messi a disposizione in open source sul sito dell’Iit”.

Ogni respiratore ha un costo di circa 250 euro, paragonabile a quello di un cellulare di fascia media. Il nome, Diego, sta per “Device for inspiration and expiration, gravity operated”: grazie a un meccanismo che si basa sullo sfruttamento della forza di gravita’, il ventilatore funziona senza l’utilizzo di elettronica, utilizzando un comune pallone respiratore di tipo Ambu. Puo’ andare anche a batteria o ad alimentazione solare, il che lo rende adoperabile anche senza elettricita’.

“Il respiratore e’ gia’ stato prodotto in pre-serie dall’azienda Scm Group di Rimini e testato per ventilare alcuni pazienti nel reparto di chirurgia dell’ospedale di Ferrara- racconta Fadiga- adesso stiamo studiando nuove modalita’ per distribuirlo a ospedali in vari paesi del mondo, il tutto senza scopo di lucro. Siamo gia’ stati contattati da diverse associazioni e ong che operano in Africa, in Siria, fino anche in Messico: dopo averlo notificato al ministero della Salute, stiamo seguendo l’iter per poter marcarlo Ce, un marchio di garanzia ulteriore”.

Dietro al progetto c’e’ un team di una ventina di professionisti: durante l’emergenza Covid, osservando la situazione degli ospedali di Bergamo, Codogno e Vo’ ci si e’ resi conti che il sistema sanitario nazionale era al limite di sopportazione. I ricercatori di Iit e dell’Universita’ di Ferrara hanno quindi pensato a quello che sarebbe potuto succedere in paesi poveri nel reperire dispositivi medici, e hanno cercato una soluzione: si sono messi assieme, ognuno con le proprie competenze, e in meno di due settimane sono giunti al primo prototipo.

Abbiamo fatto tutto come volontari, volevamo dare il nostro contributo all’emergenza – conclude Fadiga -. Anche se ora in Italia il peggio sembra passato, comunque non dobbiamo dimenticarci di quello che abbiamo attraversato. Se in questo momento qualcuno nel mondo sta vivendo situazioni analoghe, abbiamo il dovere di aiutarlo”.

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