Coronavirus, la storia di Serena: “Io infermiera in prima linea nonostante la paura”

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Lo racconta alla Dire Serena Ricciardi di Sala Consilina (Salerno) che lavora nel reparto di pneumologia riabilitativa a Pavia, da 10 giorni riconvertito per ospitare pazienti Covid-19 Condividi su facebook Condividi su twitter Condividi su whatsapp Condividi su email Condividi su print

NAPOLI – “Nel giro di un giorno e mezzo abbiamo ricoverato 35 pazienti. Il giorno dopo aver ricoverato il primo paziente Covid nella subintensiva, dove abbiamo 7 posti, eravamo già saturi“. Lo racconta alla Dire Serena Ricciardi, infermiera di Sala Consilina (Salerno) che lavora nel reparto di pneumologia riabilitativa a Pavia che da circa 10 giorni è stato riconvertito per l’assistenza dei pazienti con SARS-CoV-2.

“Tutta la situazione – spiega – ci ha preso alla sprovvista perchè non essendo un reparto di medicina e non avendo un pronto soccorso non eravamo abituati ai ricoveri di pomeriggio, di sera, senza medici di guardia. Poi è subentrata la questione dei dpi che non avevamo. Dopo sono arrivati, ma non sapevamo come vestirci e, soprattutto, come svestirci che è la parte più pericolosa: ci siamo attrezzati tra noi colleghi guardando video dello Spallanzani o di altri ospedali. Io, ad esempio, sono claustrofobica e anche solo per tenere la maschera 8 ore ho dovuto fare un lavoro su me stessa. Abbiamo fatto anche un meeting virtuale per scambiarci idee e confrontarci sulle criticità che nascevano durante l’assistenza. È stato un crescendo di organizzazione”. Impegnati in prima linea, determinati, ma impauriti. “Il poter portare potenzialmente il virus in famiglia, a casa, spaventava tutti. Ma poi – sottolinea l’infermiera – vedi la sofferenza. La mancanza di respiro penso sia una delle cose più brutte. Le persone che vengono ricoverate non hanno la possibilità di vedere i propri cari e la cosa più straziante, di cui ti rendi conto durante i turni, è che quando ti chiamano i parenti al telefono sono disperati perchè non li vedono, non li sentono, non hanno notizie perchè ovviamente i medici o fanno assistenza o rispondono alle chiamate. Per noi infermieri è bruttissimo dovergli dire che non siamo autorizzati a dare per telefono informazioni e rimandarli a quando potranno sentire il medico”. “La prima cosa che ho domandato quando ho preso servizio nel reparto convertito – ammette – è stata di avere informazioni sull’età dei pazienti, l’ho fatto per capire se quello che si diceva in televisione corrispondesse alla realtà. Nel nostro reparto ci sono soprattutto anziani pluripatologici, ma ci sono anche pazienti tra i 40 e i 50 anni che posso ancora definire giovani e che, senza patologie di base, possono finire tracheoventilati”. I giovani sani, senza patologie pregresse, seppur presenti anche tra i pazienti più critici, puntualizza, “non sviluppano la stessa difficoltà dell’anziano a reagire al virus, la durata del ricovero tende ad essere minore e hanno una ripresa più rapida. Anche il cosiddetto paziente 1, che era ricoverato qui a Pavia in rianimazione, che ha avuto un decorso drammatico perchè è stato intubato e successivamente tracheoventilato, poi è uscito e, per fortuna, è a casa”. Anche dalla testimonianza di Serena Ricciardi viene fuori il dato per cui per la maggior parte i ricoverati sono uomini, sovrappeso che è una comorbidità che ‘aiuta’ il virus. “Ci sono anche tante coppie di mariti e mogli – aggiunge – nella stessa stanza e vediamo, oggettivamente, come il supporto di ossigeno per le donne sia minore”. Sul fronte della percentuale di medici, infermieri e operatori contagiati chiarisce: “Il fatto che ci sia una casistica così elevata di sanitari positivi è legato sì all’assistenza, ma anche ad un ridotto controllo perchè si aspetta che il sanitario manifesti sintomi perchè se si ammala si riduce il personale che può fronteggiare l’emergenza. Io ho dovuto fare il tampone perche’ prima che il mio reparto diventasse Covid abbiamo avuto dei casi che poi sono risultati essere positivi e quindi siamo entrati in contatto diretto con questi pazienti senza i dispositivi di protezione. Inizialmente c’è stata un po’ di confusione sul tamponamento del personale, se avessero previsto controlli ogni 15 giorni ai sanitari probabilmente avremmo potuto contenere anche il contagio perchè credo che molti di noi, essendo più esposti, siano vettori inconsapevoli di questo virus seppur osservando tutte le indicazioni al di fuori del lavoro e indossando le mascherine chirurgiche anche nel tragitto casa-ospedale”.

Nella struttura in cui lavora “tramite il coordinatore infermieristico, ci è stata data la possibilità di avere un supporto psicologico che per il momento, per mancanza di tempo, non siamo riusciti a sfruttare. Questa è una cosa che ci porteremo dentro nel tempo, è come quando un militare torna dalla guerra: gli incubi la notte sono già iniziati, la paura di andare a lavoro c’è ed è tantissima. Lo affronti perchè sai di fare del bene, sai che puoi aiutare, per quanto possibile, qualcuno che da un momento all’altro si è ritrovato con un tubicino nel naso, con l’ossigeno, con una maschera. La maggioranza delle persone, spaventatissima, accetta tutto quello che gli fai, gli basta stare bene”.

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