Covid, per tanti giovani obesi non è una passeggiata
ROMA – Diversi studi, per lo più internazionali, hanno ormai confermato che le persone affette da obesità sono maggiormente a rischio di sviluppare forme più gravi di Covid-19. E tra queste ci sono anche pazienti più giovani, costretti ad entrare nelle terapie intensive a causa di polmoniti bilaterali interstiziali, pur non avendo fattori di rischio associati alla gravità del virus. Per approfondire l’argomento, in occasione del World Obesity Day, la Giornata internazionale dell’Obesità che si celebra oggi, l’agenzia Dire ha intervistato Diego Foschi, presidente della Società italiana Chirurgia dell’obesità e delle malattie metaboliche (Sicob).
– Perché le persone affette da obesità sono maggiormente a rischio di sviluppare forme più gravi di Covid-19?
“Il motivo è molto banale: una persona obesa ha un aumento del tessuto adiposo un po’ in tutto il corpo, a volte prevalente in un posto rispetto ad un altro. Pensiamo allora ad una persona che ha un accumulo di grasso sul torace: il polmone in questo modo si espande meno facilmente perché deve vincere un ‘peso’. Ma supponiamo ancora che questa persona abbia una polmonite interstiziale: a questo punto il suo polmone, oltre a dover superare l’ostacolo del passaggio dell’ossigeno che è difficoltoso perché c’è l’infiammazione, si trova a dover spostare la gabbia toracica con maggiore fatica. Questa persona, ovviamente, si troverà in grandissima difficoltà. L’altro aspetto è che il virus entra nelle cellule grazie alla proteina ‘S’ che si lega al recettore Ace, un recettore molto più rappresentato nel tessuto adiposo. Inoltre, le persone obese hanno un‘alterazione della risposta infiammatoria, conseguentemente sono più a rischio di ammalarsi di malattie infettive”.
– Parliamo dei pazienti obesi più giovani: alcuni, pur non avendo fattori di rischio associati alla gravità del Covid-19, sono stati costretti ad entrare nelle terapie intensive. È così?
“Il problema per cui l’obesità come fattore di rischio o complicanze legate al Covid non emerge nelle casistiche italiane è legato al fatto che nel nostro Paese non ‘registriamo’ l’obesità, cioè l’indice di massa corporea, che serve a diagnosticare l’obesità, non viene applicato di routine. Per cui quando qualche paziente entra in rianimazione in realtà non sappiamo se è obeso oppure no. I dati sull’obesità come rischio di complicanza del Covid-19 ci vengono prevalentemente dall’estero, ma dobbiamo assumere che siano autentici. Ma per rispondere alla domanda, purtroppo è così: per molti soggetti giovani il Covid dovrebbe essere una ‘passeggiata’, ma per quelli affetti da obesità non è sempre così”.
– Durante la pandemia le persone obese hanno scontato gravi ritardi sia nelle cure sia negli interventi a cui dovevano essere sottoposte. Ci può dare qualche dato?
“Noi abbiamo registrato una caduta complessiva pari almeno al 30%. Gli interventi si sono ovviamente particolarmente ridotti nei mesi di marzo, aprile, maggio ma anche novembre e dicembre dello scorso anno. Abbiamo quindi avuto un recupero parziale nei mesi in cui la pandemia era sotto controllo. Ma la mia opinione è che, fino a quando non saremo usciti da questa fase così caotica, l’andamento sarà di questo tipo, con dei momenti di sospensione e altri di accelerazione”.
L’obesità, dunque, è tra i fattori di rischio per i pazienti affetti da Covid-19 ed è per questo che chi ne è affetto in forma grave (circa 500mila persone in Italia) rientra nella categoria dei fragili che hanno diritto alla vaccinazione dopo gli over 80. Ma la Sicob chiede alle istituzioni un passo ulteriore, cioè l’inserimento dell’obesità nei Livelli essenziali di assistenza.
“L’accesso alla chirurgia bariatrica è ineguale sul nostro territorio nazionale e il Covid ha accentuato ancora di più questo aspetto. In alcune regioni d’Italia non si fa chirurgia bariatrica o se ne fa pochissima, mentre in altre regioni un’offerta superiore della stessa porta ad una emigrazione delle persone, cioè ad un movimento pendolare che però il lockdown ha chiaramente impedito. Oggi le persone non si spostano più con facilità, anche perché è spaventate, così il risultato è quello di una riduzione dei volumi di attività. Come se ne esce? Facilitando l’accesso delle persone alle cure, per cui siamo convinti che il riconoscimento dell’obesità come malattia e quindi il suo inserimento nei Lea darebbe maggiore giustizia all’offerta sanitaria. Ed è questa la richiesta che noi faremo al ministro della Salute”.
– L’obesità non è un ‘eccesso di vizio’, dite voi esperti, ma una patologia da inserire nei Lea. Gli italiani che ne sono affetti, intanto, sono circa sei milioni: ma come è possibile che esista questo problema in un Paese come l’Italia, patria della dieta mediterranea?
“La dieta mediterranea è una dieta favorevole ad uno stile di vita adeguato e armonico, ma ormai è un dato di fatto che la ‘metropolizzazione’ ci ha fatto perdere quelle sane abitudini di vita che la civiltà agricolo-contadina ci aveva consegnato. La verità è che oggi ci cimentiamo con uno stile di vita che non è più quello italiano, per cui l’hamburger, le patatine e il sandwich sono molto distanti dal pasto di quel pastore che durante la trasmutanza passava ad Amatrice e si cucinava un buon piatto di pasta, ma una sola volta in tutta la stagione. Bisogna parlare di più di obesità e farlo di più con i giovani, formandoli fin da piccoli; è poi necessario mettere a disposizione della nostra società più mezzi di vita sana, perché siamo troppo sedentari e facciamo poco movimento nelle grandi metropoli, dove purtroppo gli spazi sono occupati e non più liberi”.
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