Egitto, la denuncia dell’attivista: “Come Habash rischiano la morte migliaia di detenuti”

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"Chiunque contesti il governo finisce in detenzione cautelare, una tattica con cui il governo tiene dietro le sbarre a tempo indefinito migliaia di persone" | Disegno di Gianluca Costantini Share on facebook Share on twitter Share on whatsapp Share on email Share on print

ROMA – “La morte di Shady Habash e’ una tragedia inquietante che conferma i nostri crescenti timori sulla sicurezza delle persone attualmente in cella in Egitto. Cio’ che e’ successo ad Habash rischia di accadere a molte altre persone“. A parlare con l’agenzia Dire e’ Leslie Piquemal, responsabile campagne di advocacy per il Cairo Institute for Human Rights (Cihr), ong nata nel 1993.

Habash, regista e fotografo di 22 anni, era in detenzione cautelare dal marzo 2018 e attendeva il processo con l’accusa di adesione a un gruppo terrorista e diffusione di false notizie per aver diretto un videoclip ironico sul presidente Abdel Fattah Al-Sisi.

Il Cairo Institute da tempo segue la questione dei detenuti di coscienza in Egitto, su cui “non ci sono stime ufficiali” chiarisce Piquemal, ma “sappiamo essere un numero sproporzionato“.

L’esperta precisa: “La maggior parte di loro ha meno di 50 anni. Sono manifestanti, attivisti politici, difensori dei diritti umani, intellettuali, giornalisti, sindacalisti. Chiunque contesti il governo finisce in detenzione cautelare, una tattica con cui il governo tiene dietro le sbarre a tempo indefinito migliaia di persone”.

Stando al legale di Habash, i compagni di cella del regista avrebbero gridato per ore per ottenere assistenza medica, dato che Habash accusava lancinanti dolori allo stomaco. “Non e’ una novita’ che l’assistenza medica sia inadeguata” commenta Piquemal. “Non riceve cure sia chi presenta patologie croniche come il cancro o cardiopatie sia chi sviluppa problemi in carcere a causa delle torture o per via di cibo e acqua scadenti”.

Negli ultimi tempi le Nazioni Unite e tante ong hanno invocato un provvedimento “svuotacarceri”, soprattutto per scongiurare il rischio che l’attuale epidemia di Covid-19 si diffonda nelle carceri con ulteriore danno per chi e’ gia’ in condizioni di salute precarie.

“Non solo le autorita’ non lo hanno fatto ma dal 10 marzo hanno vietato le visite a familiari e legali dei detenuti, e persino le telefonate” dice Piquemal. “Ai detenuti di coscienza poi non e’ permesso neanche inviare o ricevere lettere”.

Secondo la responsabile del Cairo Institute, in questo modo da quasi due mesi “non sappiamo nulla di quelle persone, se sono vive e in quali condizioni“.

Il governo, oltre a non decongestionare le carceri, secondo Piquemal “ha continuato ad arrestare e incarcerare in modo arbitrario”. E spesso viene ammanettato proprio chi contesta il governo nella gestione dell’emergenza Covid-19, come e’ successo a due donne, Marwa Arafa e Kholoud Said, rispettivamente di 27 e 35 anni. La responsabile denuncia che da fine aprile “di loro si e’ persa ogni traccia” e che “dopo l’arresto sono scomparse”.

Secondo Piquemal, i giornalisti stranieri che hanno denunciato il pericolo del sovraffollamento delle carceri nella diffusione del virus, oppure le stime sui contagi e i decessi, “sono stati costretti a lasciare il Paese“. L’attivista del Cairo Institute ricorda il caso della corrispondente del quotidiano britannico Guardian, Ruth Michaelson, a causa di un articolo di questo tenore.

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