Fase 2, i dati delle app di tracciamento a Google e Apple? “Preoccupante”
- Flavio Sanvoisin
- 16/04/2020
- Dire Futuro, Politica
- f.sanvoisin@agenziadire.com
Il presidente di Anorc Professioni e avvocato specializzato in Diritto dell'informatica, Andrea Lisi: "Rischiamo uno scenario alla Minority Report" Share on facebook Share on twitter Share on whatsapp Share on email Share on print
ROMA – “Siamo fiduciosi che la task force stia facendo un ottimo lavoro, anche se le indiscrezioni che trapelano sull’App che accompagnerà la tanto attesa Fase 2 non possono che preoccuparci. Perché si parla di consegnare di fatto a Google e Apple dati di carattere sensibile (seppur almeno teoricamente pseudononimizzati) di milioni di cittadini. E non dobbiamo dimenticare che ci stiamo accordando a livello di Sistema Paese con società private extra Ue“. Così il presidente di Anorc Professioni e avvocato specializzato in Diritto dell’informatica, Andrea Lisi, commenta con la Dire le anticipazioni sull’App ‘anti Covid-19’ in fase di sviluppo.
“Per prima cosa- spiega Lisi- è importante capire per quali finalità viene ‘consigliata’ (o resa obbligatoria?) questa app in Italia. Sembrerebbe si voglia andare verso una finalità di prevenzione, quindi consentire con un app di tracciamento di prossimità, basata sulla tecnologia bluetooth la possibilità di sapere se si è stati potenzialmente vicini a persone positive. Ma attenzione: per poter funzionare una applicazione di questo tipo dovrebbe coprire la maggioranza della popolazione e avere come presupposto indispensabile una verifica massiva dello stato di salute grazie ai tamponi in modo da aggiornare costantemente l’app sulla propria (eventuale) positività. In Italia mancherebbe questo presupposto”.
Due, secondo l’esperto, sono anche i fattori che lascerebbero perplessi se quanto finora filtrato, si avverasse. “Il primo – spiega Lisi- è proprio la base volontaria dell’utilizzo. Sembra che si voglia dire agli italiani: ‘Io, Stato, non vi obbligo, potete farvi tracciare nel vostro interesse e dichiarare nella app di essere positivi o negativi al virus. Scaricando e alimentando questa app con tali preziose informazioni non avrete più bisogno di autodichiarazioni da consegnare e potrete muovervi più liberamente’. Ma messa così- osserva l’Avvocato- si avverte il sapore amaro di un consenso quasi estorto al cittadino, che mosso dalla paura del periodo e dalla possibilità di muoversi più liberamente fornirà il consenso a tali trattamenti. In altre parole, si sta cercando una strada per ‘motivare’ gli italiani. In questo modo però, anche secondo la normativa sulla privacy, si scaricherebbe di fatto la responsabilità di questa operazione a tappeto sugli utenti per aver appunto concesso volontariamente l’utilizzo dei propri dati”.
“Bisogna considerare- aggiunge Lisi- che se l’app fosse invece implementata e controllata dallo Stato, le verifiche su chi controlla tali dati sarebbero doverosamente più stringenti e non delegate a terzi, bisognerebbe sviluppare un serio privacy impact assessment, cioè una sorta di ‘check’ ai fini di sicurezza informatica e in questo caso non sarebbe neppure necessario acquisire il consenso degli utenti, perché secondo la normativa privacy sarebbe l’interesse superiore della tutela della sanità pubblica a legittimare il trattamento. Ovvio che la base giuridica sarebbe comunque controbilanciata da un accorto controllo statale, da un periodo di trattamento legato all’emergenza e dall’adeguamento dell’intera procedura al principio di minimizzazione. Operando diversamente, come sembrerebbe da quanto trapela dalla Task Force, delegheremmo invece a terzi il trattamento a tappeto di dati di cittadini italiani senza poter realmente entrare nel merito di ogni operazione di trattamento e, in modo poco trasparente, possiamo dire che orienteremmo il consenso dei cittadini verso soluzioni che non garantiscono neppure un risultato certo in termini di lotta al virus”.
“Inoltre- continua Lisi- è utile riferire che il caso italiano non è assimilabile neppure a quanto già sperimento in un Paese come la Cina (ma anche come sembra si stia procedendo negli Stati Uniti) dove le finalità sono state chiaramente repressive e l’app di geolocalizzazione e verifica degli spostamenti dei cittadini serve ed è servita per il controllo del Lockdown da parte delle forze di pubblica sicurezza. In Italia invece si vorrebbe puntare attraverso tali app di tracciamento a sbloccare il Lockdown con implicazioni quindi completamente diverse“. E qui, secondo l’esperto, l’altro fattore che non convince è l’eventuale o quanto meno indiretto affidamento dei dati personali dei cittadini italiani appunto verso Google e Apple. I due giganti della Silicon Valley hanno infatti come sappiamo stretto un accordo per allineare i loro sistemi bluetooth, rendendoli interoperabili, favorendo così una scelta in quella direzione. “Significa che qualsiasi applicazione che si utilizzerà per il tracciamento si poggerà di fatto su questo accordo- spiega Lisi- cioè che saranno inevitabilmente i primi a disporre volenti o nolenti delle nostre informazioni. Loro garantiscono che tuteleranno la privacy, ci dicono che i dati saranno pseudonominizzati. Ma rimane il fatto che delle grandi società private di Paesi esteri, oltre già a geolocalizzarci massivamente, avranno a disposizione una serie di informazioni sensibili, insomma uno scenario alla Minority Report“.
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