FOTO | Coronavirus, ora l’Università di Bologna testa le mascherine anche con lo ‘splash test’

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Sangue (finto) per testare le medico-sanitarie. 'Gli unici a farlo' Share on facebook Share on twitter Share on whatsapp Share on email Share on print Previous Next

BOLOGNA – Una simulazione di uno schizzo di sangue per verificare la resistenza delle mascherine protettive ad uso medico a potenziali rischi corsi dagli operatori degli ospedali durante l’emergenza coronavirus. È il test “da normativa” addizionale previsto per quelle che saranno destinate al personale medico e sanitario, partito da qualche giorno in una delle due sedi del laboratorio allestito a tempo di record dall’Universita’ di Bologna nelle scorse settimane. Scopo del tutto, verificare l’adeguatezza delle mascherine prodotte da aziende che hanno riconvertito la produzione per far fronte alla carenza di questo prezioso dispositivo e che rispettino gli standard En 14683 e Iso 10993.

LO SPASH TEST

Questo ‘splash test’, l’unico di questo tipo in Italia, viene effettuato all’interno della sede del dipartimento di Ingegneria civile, chimica, ambientale e dei materiali (Dicam) di via Terracini, dove quattro docenti e sei dottorandi provenienti da diversi gruppi di ricerca che collaborano alle attivita’ svolgono le prove “dalla mattina alla sera 7 giorni su 7 senza sosta”. Ed e’ qui che “abbiamo assemblato nel giro di pochi giorni questo test che utilizza un sangue finto, che non e’ altro che una soluzione di acqua e colorante che ci e’ stata preparata dai colleghi di Chimica, sempre di Unibo, e viene spruzzata con un getto in pressione, quindi e’ collegato ad aria compressa che va sostanzialmente a impattare la superficie della mascherina passando attraverso un buco di dimensioni calibrate”, spiega Matteo Minelli, uno dei quattro docenti. Il test serve per verificare “la resistenza delle mascherine a potenziali schizzi di sangue”. Il procedimento, per quanto sia calibrato nei minimi dettagli per ottenere un responso valido dal punto di vista scientifico, e’ abbastanza semplice. Viene schizzato su una mascherina un po’ di sangue finto, “a un volume ben preciso e a una pressione ben precisa”, poi “si smonta la mascherina e si valuta visivamente se e’ stata bagnata internamente e se lo schizzo di sangue e’ arrivato all’interno della mascherina”.

Minelli ce ne mostra una che e’ rimasta pulita dopo una prova: “Come si vede questa e’ assolutamente idrofoba all’esterno e quindi non e’ stata impattata, si smonta e si vede che non ha fatto passare assolutamente niente all’interno.
Ovviamente questa procedura poi va ripetuta diverse volte testando un numero abbastanza alto”. Un test semplice ma rigoroso, che prosegue il ‘viaggio’ di queste mascherine prima dell’approvazione definitiva. Ricorda Minelli: “Il primo test che facciamo e’ quello di respirabilita’, cioe’ quanto sarebbe affannosa la respirazione, diciamo cosi’. La seconda prova che viene fatta e’ quella di efficienza di cattura batterica, che e’ eseguita nei laboratori del Sant’Orsola”. Infine, “su quelle che risultano positive viene fatta la prova di carica batterica, mentre queste prove di ‘splash test’ sono su una classe specifica di mascherina ad alta efficienza di cattura batterica, 98%, con perdite di carico superiori a 40, tra 40 e 60″. In parole povere, queste ultime “prevedono test piu’ rigorosi perche’ appunto hanno come destinazione gli ospedali”.

Un’attivita’, quella dei due laboratori, necessaria per verificare se le mascherine provenienti da aziende ‘riconvertite’ sono idonee. “Molto materiale che abbiamo ricevuto, soprattutto all’inizio, era materiale improvvisato- spiega Cristiana Boi, responsabile del laboratorio-. Con improvvisato intendo che veniva da persone e aziende che non avevano mai fatto mascherine o materiale protettivo per la sanita’, e avevano aziende d’abbigliamento, sartorie, e si sono riconvertite senza sapere che tipo di materiale andava utilizzato per fare una buona mascherina”. L’obiettivo finale insomma e’ di “garantire al personale sanitario, e sarebbe utile anche ai cittadini, che nel momento in cui si mettono la mascherina sono coperti dal contagio. Mettersi una mascherina che non difende il cittadino o il chirurgo o il personale sanitario e’ probabilmente qualche cosa di piu’ pericoloso”, avverte Alessandro Paglianti, altro coordinatore del laboratorio. Un lavoro necessario, dunque, che attualmente non ha eguali in Italia e in Europa. Infatti, pur essendoci “vari laboratori in varie universita’”, pare che “da quello che ho capito, da altri servizi giornalistici o da risultati di prove fatti da altre aziende o da universita’, noi siamo gli unici che eseguiamo test secondo la norma che e’ la En14683 per la mascherina chirurgica, dalla respirabilita’ appunto allo splash test- spiega Boi- altre universita’ li fanno parziali o comunque non fanno le prove di filtrazione batterica secondo la normativa”.

Per quanto riguarda lo splash test “il professore Violante (a capo del laboratorio insieme a Boi, ndr) mi ha detto che non ci era noto di nessun altro laboratorio universitario che lo facesse”, rivendica la docente dell’Alma mater. Una unicita’ che ha portato a far giungere al laboratorio numerose richieste di analisi “da tutta Italia e anche dall’estero… Un’azienda inglese e due aziende spagnole negli ultimi giorni, una mail con richiesta dalla Polonia”. Come per l’altra sede del laboratorio, al Padiglione 1 del Policlinico Sant’Orsola, l’allestimento e’ stato possibile grazie a una sinergia totale tra i vari dipartimenti della comunita’ Unibo. Una collaborazione che ha coinvolto anche ex allievi di Ingegneria meccanica e mineraria laureati nel 1981, che hanno contribuito donando “uno dei pezzi importanti del circuito” del test in questione. Una dimostrazione che “la comunita’ di Unibo nel suo complesso rimane attiva nei momenti di difficolta’”

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