La guerra in Ucraina è una catastrofe umanitaria e un enorme disastro ambientale, peggio non si può
All’indomani dei negoziati sul clima della COP26 Zelensky aveva annunciato un piano ambizioso per piantare milioni di alberi in tutta l’Ucraina. Poi il buio. Si è trovato (nuovamente) i russi in casa, in un folle conflitto che sta causando anche inquinamento di aria, acqua e suolo. Un disastro ambientale che chissà quando verrà risanato.
Tra esplosioni e incendi, qui, si rischia di dire definitivamente addio alle foreste, da queste parti già ampiamente minacciate. E non solo. Quella attuale è una crisi che potrebbe anche influenzare la futura politica climatica riducendo risorse e distogliendo attenzione.
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Perché il punto è proprio questo: oltre alla grave emergenza umanitaria, gli attacchi a siti civili e militari provocano un inquinamento tale che, soprattutto in un Paese così fortemente industrializzato, minaccerà la sicurezza alimentare (e di altri Paesi che dipendono dalle esportazioni di grano e mais) e la stessa biodiversità.
Ogni conflitto ha una narrativa ambientale unica – ha detto Doug Weir, direttore della ricerca e delle politiche al Conflict and Environmental Observatory (CEOBS), , una organizzazione volta ad aumentare la consapevolezza dell’impatto ambientale delle attività militari. Per l’Ucraina, ruota attorno al numero di rischi tecnologici posti dai suoi grandi settori industriali ed energetici e alla crescente intensità delle azioni militari russe.
Tutto è in un contesto già non facile, il caso del Donbass
L’Ucraina ospita parecchi siti industriali e già anche prima di questo conflitto, secondo l’Environmental Performance Index, il Paese era alle ultime posizioni per indicatori ambientali come la qualità dell’aria, la protezione della biodiversità e la salute dell’ecosistema. La regione del Donbass, in Ucraina orientale, per esempio, è stata a lungo considerata una delle aree ucraine più inquinate a causa dei suoi impianti di estrazione del carbone, metallurgia e produzione chimica (l’area conta circa 900 impianti industriali, tra miniere di carbone, siti metallurgici e chimici, centrali ad energia termica e stabilimenti per la lavorazione di materiale radioattivo, 1230 km di gasdotto ed oleodotti e 320 mila tonnellate per km² di rifiuti industriali stoccati in discariche).
La zona qui tutta costellata da gallerie colpite nel tempo da moltissime inondazioni che hanno provocato lo spostamento della superficie, trasportando sostanze chimiche tossiche che ora minacciano l’approvvigionamento idrico della regione.
La guerra nelle aree industriali crea ampi rischi di contaminazione tossica, data la concentrazione di centrali elettriche, impianti chimici, fabbriche di lavorazione dei metalli e simili, spiega Ken Conca, professore di relazioni internazionali alla American University School of International Service. Queste strutture tendono ad essere piene di prodotti petroliferi, sostanze chimiche pericolose e composti combustibili che, una volta liberati nell’ambiente, possono causare ingenti danni a breve e lungo termine.
Anche già solo le armi inquinano
Dai metalli comuni a terre rare e dall’acqua a idrocarburi: già costruire e mantenere forze militari ha un costo ambientale elevatissimo. Senza considerare che i veicoli militari, dagli aerei alle infrastrutture per addestramenti, richiedono poi energia il più delle volte l’energia derivante dai combustibili fossili.
Le conseguenze dell’inquinamento militare sono sotto gli occhi di tutti eppure si fa finta di non vedere: in America, per esempio, l’attività mineraria per la produzione di armi colpisce duramente le comunità dei nativi americani, profanando i siti sacri e contaminando la terra. E non solo: cosa succede dopo la guerra? Tutto il materiale militare che fine fa? Ancora oggi, dopo più di mezzo secolo, mine antiuomo, munizioni a grappolo e altri residuati bellici esplosivi possono essere trovati in alcune parti d’Europa. In definitiva, quanto impatta una guerra sul clima?
Inoltre, lo stesso Weir, in “How does war contribute to climate change?” (2021), dimostra scientificamente come la guerra non implichi una automatica riduzione delle emissioni di gas serra, ma, al contrario, agisca in modo diretto sui cambiamenti climatici.
Si stima che nel 1991 gli incendi ai pozzi petroliferi della Guerra del Golfo abbiano contribuito per oltre il 2% alle emissioni globali di CO2 da combustibili fossili. E in più: il rapporto dell’ICRC (Comitato Internazionale della Croce Rossa) dal titolo “When rain turns to dust”, mette in evidenza come la presenza di attività bellica possa impattare le risorse idriche, con la contaminazione delle acque, rilasciare inquinanti tossici nell’aria e danneggiare il terreno. Riducendo la biodiversità ed introducendo modificazioni micro-climatiche.
Gli animali e le foreste
Tornando alle foreste con cui abbiamo aperto, esse ricoprono 19% dell’Ucraina e negli ultimi due decenni avevano già subito elevati tassi di disboscamento. Subito dopo la COP26 dello scorso novembre, il presidente ucraino annunciò un grande piano di riforestazione, ma le cose stanno così ora e insieme ai grandi mammiferi sono già scomparsi anche i più piccoli, che comunque già cominciavano a fare le spese di una massiccia conversione di suolo.
Le buone intenzioni c’erano. Ma la guerra appassirà nuovamente tutto e bisognerà ricominciare dall’inizio.
Avremo tempo?
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