La mamma coraggio: “Mio figlio è in comunità con il padre denunciato per violenza”

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SPECIALE MAMME CORAGGIO | La storia di M. A. e di suo figlio. Il Tribunale attribuisce la genesi del rifiuto del bambino verso il padre 'all'incapacita'' della signora 'di preservare dalla propria emotivita' il bambino' Share on facebook Share on twitter Share on whatsapp Share on email Share on print

ROMA – Di fronte all’ingresso dell’ospedale di Scorrano, nel leccese, il 6 giugno 2019 ci sono i carabinieri e due donne che urlano: una, col cellulare in mano, riprende la scena, l’altra è stesa a terra. Sono M.A. e sua madre. “Dove l’avete portato?”, chiede con voce affannata M.A., scappata via con le stampelle e una corsa incerta dal reparto dove suo figlio, Antonio (il nome è di fantasia, ndr), 8 anni compiuti da qualche mese, è stato ricoverato da fine maggio “perché aveva mal di testa e urinava continuamente”, come racconta lei stessa in un’intervista all’agenzia di stampa Dire. Il piccolo è stato appena prelevato “dai servizi sociali del Comune di Maglie e dalla Polizia anticrimine” sulla base di un decreto del Tribunale dei minorenni di Lecce, datato 11 gennaio 2019, che ne dispone il collocamento in una casa famiglia, “la Comunità Chiara Luce” della città salentina, che fa parte della rete dell’Economia di Comunione fondata da Chiara Lubich, la stessa del Movimento dei Focolari. “Quando è entrato in struttura mio figlio gridava, non voleva, chiedeva che arrivassi lì da lui, si rifiutava di mangiare e di bere– racconta M.A., come le è stato riferito da testimoni sul posto- Il padre, che fu allontanato perché il bambino non era nelle condizioni di vederlo, assisteva a quell’orrore senza opporsi minimamente. Tutto questo è accaduto sulla pelle di mio figlio, un bimbo, nonostante ci fosse stata un’ordinanza del Tribunale ordinario datata 25 luglio 2016 che sanciva che non vi erano elementi di prova per imputare alla madre ‘un comportamento ostruzionistico in ordine all’esercizio del diritto di visita del padre in favore del figlio’”. È lì che Antonio risiede col papà, ormai da più di un anno. Il provvedimento era stato preceduto da un decreto di affido del minore ai Servizi Sociali del 26 marzo 2015 ai fini “dell’avvio di un percorso di mediazione o di attenuazione della conflittualità tra i genitori” come riportato da un’ordinanza di Cassazione del febbraio 2020.

Due anni prima, nel 2013, M.A. aveva denunciato il suo ex. Rinviato a giudizio per maltrattamenti in famiglia e stalking. Il procedimento penale si è chiuso in primo grado con un’assoluzione. M.A., però, ha il corpo segnato. Invalida al 55%, il suo ginocchio, a soli 42 anni, funziona poco e male. “Ho una lesione di quarto grado, non ho più cartilagine per i traumi subiti nel corso del tempo- spiega- Ormai cammino con due stampelle, curva, se prendo una buca è la fine. Dovrò fare una protesi, ma il mio ortopedico mi ha detto di aspettare fino ai 48-49 anni perché sono troppo giovane”. La diagnosi della lesione e il riconoscimento di invalidità arrivano “dopo l’ultimo episodio violento del mio ex avvenuto nel gennaio del 2016”, mentre M.A. stava accompagnando Antonio dal padre. “Mio figlio venne sospinto dentro la sua macchina- racconta- io sentendomi chiamare sono scesa dalla mia. Lui si è avvicinato e mi ha spinta per terra, a quel punto anche Antonio è sceso dall’auto piangendo. Poi il mio ex è scappato. Il ginocchio mi faceva malissimo, nessuno ha chiamato l’ambulanza, mi hanno accompagnato i miei”. La seconda denuncia di M.A. finisce al giudice di pace, assieme a un’altra causa relativa ad un episodio avvenuto nel 2015 “quando il bimbo si ruppe il naso. Antonio ha riferito che era stato scaraventato contro un mobile mentre suo padre e suo nonno paterno litigavano”. Educatrice scolastica e domiciliare, specializzata in relazioni d’aiuto, M.A. conosce il suo ex compagno, militare della Marina Militare, “intorno al 2004. La nostra è stata da sempre una storia complicata- dice- all’inizio mi sembrava amorevole, presente, disponibile, anche se introverso. Poi ha cominciato a controllarmi le telefonate, il modo di vestire. Era geloso in modo morboso. Quando camminavo mi faceva delle scenate per strada, non poteva nemmeno chiamarmi un amico perché pensava subito che io avessi una relazione con lui”. Una vita che M.A. descrive come “impossibile”, tanto che prova a lasciarlo una prima volta. “Mi picchiò vicino casa sua, io fui costretta a chiamare i miei perché avevo maglietta e gonna strappate. Poi gradualmente mi ricercò e abbiamo ripreso a frequentarci. Rimasi incinta e fu la fine del mondo. Mi chiese di abortire. Io non volli, lui lo disse a sua madre quando ero ormai al sesto mese. Anche quando è nato il bambino lui lo ha sempre trattato con freddezza”.

La convivenza con il suo ex dura solo un anno e mezzo “ma praticamente eravamo sempre dai suoi e quando io cucinavo lui prendeva e buttava tutto perché doveva andare a mangiare dalla madre”, ricorda la donna. Gradualmente M.A. si convince che non può continuare così. “Un giorno che ero riuscita a tornare a Maglie dai miei, mia cugina si rese conto che avevo delle escoriazioni- racconta- In breve tempo lo vennero a sapere i miei e mi convinsero a chiamare il 1522, che mi dirottò sul centro antiviolenza ‘Renata Fonte’ a Lecce, dove decisi con la presidente di andare a sporgere Denuncia”. Intanto Antonio cresceva e “io sapevo che era giusto che continuasse ad avere un rapporto col padre. Tutte le volte che doveva andare da lui, però- ricorda- mi collassava, urlava, sbatteva, non ci voleva andare”. Dopo un periodo di incontri in spazio neutro il Tribunale dei minorenni di Lecce stabilisce che l’uomo può vedere il figlio due volte a settimana, dalla mattina fino alle 17. “Quando tornava a casa spesso Antonio era stravolto: i ritmi sonno-veglia erano alterati, si addormentava e si risvegliava il giorno dopo, altri giorni arrivava agitato e piangeva perché non voleva più tornare nella casa del padre. Il mio ex ha cominciato a denunciarmi una volta al mese”. E quando Antonio è ormai all’asilo l’uomo le contesta il “mancato rispetto del diritto di visita”, che tenta di ampliare con “una serie di ricorsi al Tribunale”. Nelle relazioni trasmesse dai consultori familiari e dal neuropsichiatra, coinvolti nell’intervento di mediazione, viene confermato “il rifiuto del minore di interagire con il padre e la presenza di un condizionamento da parte di figure parentali, in primo luogo della madre”, come si legge nella stessa ordinanza di Cassazione, con la Corte che afferma che “ai fini dei provvedimenti previsti dall’articolo 333 del Codice Civile”, sulla condotta del ‘genitore pregiudizievole ai figli’, “non potevano assumere alcun ruolo i comportamenti penalmente illeciti iscritti” all’ex di M.A. “in assenza di una pronuncia giudiziaria quanto meno di primo grado”. Nelle stesse relazioni gli operatori “pur avendo rappresentato le problematiche personologiche” dell’uomo “avevano concordemente evidenziato la necessità di favorire la relazione tra il minore ed il padre, in autonomia rispetto alla madre, nonché la sostanziale chiusura di quest’ultima verso ogni progetto di mediazione e recupero della genitorialità, a causa di sentimenti personali di rifiuto nei confronti dell’uomo”. L’“unico strumento utilizzabile per ristabilire i rapporti tra padre e figlio” individuato dall’autorità è stato, quindi, “il regime residenziale del minore con il padre”.

“Un rifiuto tenace come quello espresso da Antonio nei confronti del padre può trovare la sua origine solo in un fatto traumatico subito dal minore a opera del genitore rifiutato- commenta all’agenzia Dire Andrea Mazzeo, psichiatra e consulente tecnico di parte (Ctp) di M.A.- Il Tribunale attribuisce la genesi del rifiuto del bambino verso il padre ‘all’incapacità’ della signora ‘di preservare dalla propria emotività il bambino’. Esclude invece che la genesi del rifiuto possa ricondursi alla violenza paterna, sia diretta sia assistita. La teoria del presunto condizionamento non sta in piedi. Un eventuale condizionamento psicologico non può compromettere il legame di attaccamento genitore-figlio, se c’è”. Per Mazzeo “giustificare l’inserimento in comunità del bambino con un ‘progetto finalizzato alla riconnessione emotiva padre-figlio’ è un assurdo sul piano psicologico, perché i sentimenti e le emozioni, sono un qualcosa di spontaneo e non possono essere esercitati a comando. Naturalmente questo tipo di prescrizioni sono destinate a fallire”.

“In ogni parte d’Italia assisto a perizie di Ctu copia-incolla, i diritti dei bambini sono calpestati, la loro voce non viene ascoltata– commenta alla Dire Bruna Rucci, psicologa e psicoterapeuta, anche lei Ctp di M.A.- Anche in questa storia la violenza subita da M.A. e dal suo bambino viene banalizzata e ritenuta strumentale, diventa ‘magicamente’ conflitto. La madre protettiva diventa ostativa nei confronti del diritto paterno, e punita con l’allontanamento del bambino. Ed è proprio lo slittamento della violenza in conflitto, a deformare le decisioni di giudici e Ctu, minimizzando e negando la violenza paterna, e sottovalutando il potenziale pericolo per il minore. L’unica strada per difendere realmente i bambini sarebbe l’applicazione della Convenzione di Istanbul, che stabilisce che ‘al momento di determinare i diritti di custodia e di visita dei figli siano presi in considerazione gli episodi di violenza e che l’esercizio di tali diritti non comprometta i diritti e la sicurezza della vittima e dei bambini’. Anche solo il sospetto di abuso e violenza verso una donna o un minore deve necessariamente allertare e limitare o sospendere il diritto alla bigenitorialità del genitore che potrebbe nuocere con condotte inadeguate, violente o sessuali”. “È fuor di dubbio che, nel caso specifico, il Tribunale per i minorenni di Lecce abbia preso delle decisioni ideologiche e non con il reale intento di tutelare un bambino- dichiara alla Dire l’avvocato Francesco Miraglia, legale di M.A.- Basta tener conto che dopo un anno di comunità padre-bambino, il rapporto è pari quasi a zero. Forse è stata una decisione sbagliata? Anche con i giudici bisognerebbe applicare quella regola comune secondo la quale chi sbaglia paga. A questo bambino chi pagherà i danni?”.

“Antonio è stato sradicato dalla sua casa, dai suoi amici, è stato iscritto in un’altra scuola in un quartiere di Lecce– racconta ancora M.A.- Non mi hanno neppure comunicato in quale scuola è iscritto, è stato rapito, sotto tutti i punti di vista. I nonni materni non possono nemmeno vederlo. Finche’ c’è stata la scuola i miei genitori di buon’ora, dopo che il bambino me lo aveva detto, si sono recati per vederlo all’ingresso di scuola per pochi attimi e il piccolino era contentissimo di incontrarli e di prendere la merenda portata dai suoi nonni. Mi manca tantissimo- confessa- i miei genitori, i familiari e le mie amiche mi stanno vicino e io cerco di andare avanti rifugiandomi nel lavoro”.

M.A. ad oggi vede suo figlio una volta a settimana, negli incontri in spazio neutro organizzati in casa famiglia. “Mi sento una mamma a metà, lo vedo per un’ora piantonata e ripresa dalle telecamere. Gli operatori non mi informano di niente e le relazioni che stilano non rispecchiano la realtà. Sono in piedi ancora i procedimenti per il naso del bambino e il mio ginocchio”. Nell’iter giudiziario di affido, intanto, dopo la prima Consulenza tecnica d’ufficio “in cui risulto una mamma sollecita nel favorire l’interesse e i bisogni di mio figlio”, è in corso una seconda Ctu, “per vedere come sta il bambino e decidere quale sarà il suo futuro. Io ho chiesto che possa ritornare a casa e che, rispettando la sua volontà, continui a vedere suo padre- spiega M.A.- Antonio è provato, esile, vive sotto scacco, non è libero e vuole tornare a casa. Queste cose fatte con la forza lasciano il tempo che trovano”. Ma “se tornassi indietro, denuncerei ancora e al primo segnale. Non lascerei intentata alcuna strada”.

Sul caso di M.A. la deputata del Gruppo Misto e segretaria della Commissione Infanzia e Adolescenza, Veronica Giannone, ha depositato un’interrogazione parlamentare al ministro della Giustizia e la Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio ha approvato la richiesta di acquisizione degli atti.

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