Mastrobuono (Asl Bolzano): “Sul territorio anni luce lontani dai Paesi Ue”

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"E' mancato un piano pandemico e abbiamo pagato la riduzione progressiva dei posti letto in terapia intensiva" Share on facebook Share on twitter Share on whatsapp Share on email Share on print

ROMA – Mentre gli esperti sono al lavoro sulla ‘Fase due’, un tema cruciale, soprattutto per il futuro, è però la gestione dei positivi sul territorio e il mantenimento a regime dei servizi ambulatoriali e ospedalieri. Su questo e la possibilità di una strategia sanitaria comune da parte dell’Europa ha risposto, intervistata dall’agenzia Dire, Isabella Mastrobuono, direttrice dell’Uoc ‘Sviluppo dell’assistenza territoriale e chronic care’ dell’azienda sanitaria dell’Alto Adige (Bolzano) e docente della Luiss Business School.

– Com’è cambiato il vostro modo di lavorare e dunque anche l’assistenza sanitaria ai tempi del Covid-19?

‘E’ cambiato moltissimo perché si è dovuto dare una risposta immediata ad una epidemia e questo, di conseguenza, ha sconvolto l’organizzazione aziendale sia a livello ospedaliero per fare spazio ai posti letto dedicati, soprattutto in terapia intensiva e subintensiva, sia a livello territoriale, con la riorganizzazione massiccia delle attività dei medici di medicina generale e del Dipartimento di prevenzione. Per fortuna già da due anni avevamo potenziato i servizi sul territorio attraverso una riorganizzazione delle attività. La provincia autonoma di Bolzano ha attive 27 aggregazioni funzionali territoriali (AFT) e il fatto di aver organizzato la medicina generale in gruppo, l’aver istituito dei percorsi assistenziali monitorati è stato in questo momento un vantaggio straordinario. Questo ci ha dato la possibilità di lavorare meglio. Dai dati si può constatare che è l’assistenza territoriale a farla da padrona qui a Bolzano rispetto ad altre realtà che sono state piuttosto ospedalo-centriche. Noi abbiamo assistito molti pazienti a casa. E’ stato un vero e proprio stress test per il territorio, ma è anche vero che non siamo mai andati in affanno con le terapie intensive e con i reparti Covid. Abbiamo puntato sul ruolo dei medici di medicina generale, ma anche di altre figure professionali come gli infermieri che sul territorio hanno effettuato i tamponi direttamente a domicilio del paziente. Abbiamo attivato 8 (di 11) Unità speciali di continuità assistenziale con medici che si fanno carico dei pazienti COVID positivi a domicilio e nei prossimi giorni sarà attivo un servizio di teleassistenza per pazienti COVID dimessi dall’ospedale. Dobbiamo riprendere le attività ospedaliere che abbiamo ridotto nel più breve tempo possibile: i pazienti con altre patologie non possono attendere altro tempo. Ricominceremo subito dopo la prossima settimana. Bisogna ripartire con gli interventi chirurgici e riprendere in mano il discorso della cronicità perché, in questo periodo, queste patologie non sono scomparse. La paura poi è quella che si paghi un prezzo alto. Il domicilio del paziente rappresenta punto di arrivo a cui tendiamo. Per questo vogliamo mantenere le USCA anche post emergenza e non le smantelliamo perché le useremo per seguire i pazienti cronici e anziani che sono la fascia più colpita dal virus. Comunque saranno utilissime qualora il virus dovesse riaffacciarsi nei diversi Distretti della Provincia: sono le nostre sentinelle’.

– La popolazione italiana è per la maggior parte over 65. Questo è un problema per l’infezione da Sars Cov.2?

‘In Italia abbiamo un’ alta percentuale di anziani che arrivano abbastanza stabilizzati in età avanzata. Ma è altrettanto vero che non esistono un’assistenza domiciliare e residenziale degne di questo nome. Rispetto ad altri Paesi europei (Germania, Danimarca, Svezia) siamo anni luce lontani. L’Italia riconosce in media 18 ore l’anno di assistenza domiciliare ad assistito (contro valori europei che sfiorano in alcuni casi le 100 ore), mentre sul versante della residenzialità disponiamo di 18 posti letto per mille abitanti over 65, (contro una media europea di 50). La maggior parte degli anziani sono a casa. Certamente è stata una delle cause che ha reso più facile il contagio da parte dei familiari a seguito del quale i pazienti sono stati trasferiti in ospedale. Altro problema gigantesco è stato, ed è ancora, quello delle Rsa e delle strutture per disabili, dove sicuramente l’attenzione è stata tardiva. Le persone fragili, gli anziani con pluripatologie sono i bersagli ideali del virus. La tempestività allora svolge un ruolo straordinario. In PA di Bolzano i primi interventi di chiusura delle strutture per anziani e disabili si sono verificati molto presto. Purtroppo bisogna registrare un po’ ovunque il ritardo nel reperimento e nella distribuzione dei dispositivi di protezione individuali per i lavoratori: questo è stato ovunque un serio problema. Usare correttamente i dpi e le protezioni è molto importante poiché se vengono usate male è come se non si avessero. Per questo il personale deve essere preparato ed addestrato’.

– Come gestite presso la vostra Azienda i casi indifferibili non COVID?

‘Abbiamo creato un rapporto diretto tra i Mmg e gli specialisti delle diverse branche e attivato delle linee dedicate dove rispondono ai Mmg i vari specialisti al fine di risolvere eventuali problemi nell’attesa di riaprire gli appuntamenti. Abbiamo chiuso le attività non urgenti, ma mantenuto i controlli e la somministrazione delle terapie per i pazienti oncologici e gli interventi in emergenza-urgenza, anche in psichiatria dove abbiamo cercato di garantire le prestazioni il più possibile. Dalla prossima settimana si comincia a riaprire dando priorità per appuntamento e attraverso ingressi dedicati. Prevediamo la rilevazione della temperatura corporea dei pazienti che si presenteranno, rigorosamente nel rispetto della distanza di sicurezza scaglionando gli appuntamenti’.

– Questa pandemia imporrà una nuova e più globale riorganizzazione sanitaria? Come cambierà il modo di lavorare in ospedale ma anche sul territorio, pensando anche al ruolo che dovranno assolvere i medici di medicina generale.

‘E’ una domanda alla quale è difficile rispondere. Bisognerà tornare a lavorare, ma sarà necessario disporre di dispositivi di protezione individuale in quantità adeguate. Necessariamente medici, fisioterapisti e infermieri dovranno ‘per forza’ rimettere le mani sul paziente e in molti casi il distanziamento sociale non potrà, per ovvie ragioni, essere rispettato. Questa è la realtà: il distanziamento sociale è possibile per altri tipi di professioni, ma non è così in ambito sanitario. Sarà necessario prevedere operazioni di sanificazione degli ambienti periodiche, ma costanti nel tempo e bisognerà reinventarsi l’organizzazione basata tutta su appuntamenti da rispettare e distanziamento sociale. Molte abitudini e consuetudini sia all’interno che all’esterno degli ospedali cambieranno. Penso che sarà fondamentale puntare finalmente all’organizzazione del territorio che dovrà essere potenziata come peraltro emerse in un lavoro dell’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali con la quale ho collaborato e dove ho coordinato il gruppo delle Regioni che su questo tema hanno prodotto un importante documento’.

– Secondo lei l’Italia, intendendo sia il Governo che la classe medica,è stata in grado di fronteggiare l’emergenza o si doveva fare meglio?

‘Questo Governo o le Regioni più colpite non hanno colpe per la tragedia accaduta. Si sono trovate davanti ad uno tsunami ed è stato fatto molto più del possibile, con le risorse disponibili. Sicuramente però il comportamento altalenante dell’Oms non è stato utile. Fare maggiore chiarezza, non ritardare la dichiarazione di pandemia avrebbero contribuito ad accelerare le decisioni dei Paesi. Il vero dramma, per tutti i Paesi, credo sia stato quello di non aver dato imparato dalle precedenti grandi epidemie: dalla SARS del 2003, all’H1N1 del 2009, per non parlare dell’HIV, che ha ucciso milioni di persone e per il quale non è stato ancora scoperto alcun vaccino. Non aver fatto messo a punto dei piani pandemici e non aver considerato ancora le malattie infettive come un grande problema per l’umanità, credo, sia la grande colpa di tutti i Paesi. In Italia esisteva un Piano pandemico nel 2010 e prima ancora erano state emanate Leggi specifiche sull’HIV, che avevano collocato il nostro Paese tra i primi al mondo. Non aver aggiornato quel Piano, sia a livello centrale che a livello regionale, è stato un grande errore. Un secondo errore è stato riorganizzare la rete ospedaliera riducendo i posti letto, e tra questi quelli in terapia intensiva, che nel lontano 1996, nell’Atto di indirizzo e coordinamento sull’emergenza-urgenza (Ministro Elio Guzzanti) era previsto che fossero almeno il 3 per cento del totale dei posti letto. Così la progressiva riduzione dei posti letto di TI e la mancata creazione di aree di sub-intensiva ci ha portato al collasso che abbiamo vissuto oggi in alcune Regioni’.

– In tutta questa emergenza sanitaria, ma anche economica, ha visto un’Europa coesa o piuttosto inconsistente?

‘Questa Europa dal primo giorno in cui è nata ha tenuto fuori da tutti gli accordi lo stato sociale. Non si è mai confrontata su temi come la sanità, l’assistenza e la previdenza. Tutto ciò costituisce un aspetto grave ed è il vero tallone d’Achille del Continente, quando appunto dinanzi ad una emergenza sanitaria l’Europa non è stata e non è pronta ad affrontarla. Non è accettabile che davanti ad un problema di questa portata i paesi europei non siano uniti nell’affrontare con lo stesso spirito una catastrofe: dove sono i valori sui quali si fonda l’Unità di cui tanto si parla? Chissà, forse dopo questo tsunami, il tema della sanità potrebbe essere invitato ai tavoli di Bruxelles. Sogno una Europa più umana che si faccia carico davvero dei problemi dei suoi cittadini in maniera omogenea in tutto il continente, e dato che sono tanti, ma proprio tanti gli anziani e coloro che presentano disabilità, mi aspetto che questo tema diventi prioritario’.

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