Scoperto nuovo ceppo di coronavirus, molto più contagioso (e dominante) dell’”originale”. Lo studio

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Alcuni scienziati americani, in seguito ad un recente studio non ancora sottoposto a revisione paritaria, sono giunti alla conclusione che il coronavirus sia mutato e che il nuovo ceppo, diventato dominante un po’ in tutto il mondo, sia più contagioso.

Un team di ricerca de Los Alamos National Laboratory nel New Mexico (Stati Uniti) ha identificato un nuovo ceppo di coronavirus che sembra essere più contagioso rispetto a quello che si è diffuso nei primi giorni della pandemia.

Il rapporto si basa su un’analisi di oltre 6.000 sequenze di coronavirus provenienti da tutto il mondo, raccolte dalla Global Initiative for Sharing All Influenza Data, un’organizzazione tedesca.

Il team di Los Alamos, con la collaborazione degli scienziati della Duke University e dell’Università di Sheffield in Inghilterra, ha identificato 14 mutazioni ma gli autori dello studio si sono concentrati in particolare su una mutazione chiamata D614G.

Il nuovo ceppo individuato sarebbe comparso per la prima a febbraio in Europa e poi sarebbe rapidamente emigrato verso la costa orientale degli Stati Uniti. Secondo questo studio, da marzo è diventato il ceppo dominante in tutto il mondo.

Le due varietà che sembrano combinarsi secondo i grafici dello studio, G614 (blu) e D614 (arancione) sono aumentate a fine marzo in tutto il mondo ma è G614 ad essere diventato quello dominante.

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© Los Alamos National Laboratory

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©Los Alamos National Laboratory

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©Los Alamos National Laboratory

Il fatto è che, a detta dello studio, il nuovo ceppo si diffonde più rapidamente e potrebbe rendere più vulnerabili le persone nei confronti di una seconda infezione dopo aver già contratto la malattia una prima volta.

Il rapporto di 33 pagine è stato pubblicato su BioRxiv, un sito web che i ricercatori utilizzano per condividere il proprio lavoro velocemente, in modo che altri studiosi possano visionarlo così da accelerare la collaborazione con scienziati di tutto il mondo che lavorano su vaccini o trattamenti COVID-19. Ma, ricordiamo che si tratta di relazioni preliminari che non sono state sottoposte a revisione paritaria.

La ricerca di farmaci e vaccini in grado di debellare il nuovo coronavirus si basa in gran parte sulla sequenza genetica dei ceppi precedenti e, dunque, questi strumenti potrebbero non essere efficaci nel caso il virus, nel corso di questi mesi, sia effettivamente mutato.

La mutazione identificata nel nuovo rapporto riguarda l’ormai nota proteina Spike (S), ossia quella che consente al virus di entrare nelle cellule respiratorie umane. Gli autori del rapporto affermano di aver sentito un “urgente bisogno di lanciare un allarme tempestivo” in modo che i vaccini e i farmaci in fase di sviluppo in tutto il mondo siano efficaci contro il ceppo mutato.

Lo studio avverte inoltre che, se la pandemia non cala con il clima più caldo, il virus potrebbe subire ulteriori mutazioni.

David Montefiori, uno scienziato della Duke University che ha lavorato al rapporto, ha affermato che è il primo a documentare una mutazione nel coronavirus che sembra renderlo più contagioso. Non si sa ancora però se questo virus mutato possa spiegare le variazioni della forza con cui COVID-19 sta colpendo le diverse parti del mondo.

Lo studio di Los Alamos non indica tra l’altro che la nuova versione del virus sia più pericolosa. Le persone infette dal ceppo mutato sembrano avere cariche virali più elevate ma gli autori dello studio dell’Università di Sheffield hanno scoperto che tra un campione locale di 447 pazienti, i tassi di ricovero erano quasi gli stessi per le persone infette dai diversi ceppi del virus.

Anche se il coronavirus mutato non è più pericoloso degli altri, potrebbe comunque complicare gli sforzi per tenere sotto controllo la pandemia. Sarebbe un problema se la mutazione rendesse il virus così diverso dai ceppi precedenti che le persone che hanno sviluppato una precedente immunità non potessero più beneficiarne.

Se così fosse, potrebbe rendere “le persone sensibili a una seconda infezione”, hanno scritto gli autori dello studio.

Fonti di riferimento: Biorxiv / Los Angeles Times

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